sabato 19 maggio 2012

Il superamento dei limiti - di Pier Giorgio Micelli

Ho quasi cinquant’anni e qualche volta penso. Penso a chi aveva la mia età cinquant’anni fa. Se come me aveva domande da farsi su di sé e sulla realtà che aveva attorno; se le risposte che trovava erano sufficienti; se come io ora penso ad essi, essi pensassero a me e immaginavano quale mai sarebbe stata l’eredità che ne avrei ricevuto.
Ma penso anche ai non ancora nati che avranno 50 anni fra cinquant’anni: che eredità lascerò e lascerà loro questa generazione? Cosa si chiederanno e che risposte avranno? Mi penseranno qualche volta?
I miei padri lontani erano a loro volta figli di una civiltà contadina, i cui tempi erano scanditi dal ritmo della natura: mattina-sera, caldo- freddo, estate-inverno, eccetera…la morale e la cultura erano modellate dalla dottrina cristiano-cattolica, vale a dire dal controllo degli impulsi ritenuti deteriori, attraverso l’idea del peccato, inteso come un limite non superabile e un diffuso autoritarismo dello Stato e della Chiesa. Il nemico era rappresentato dal materialismo comunista ed ateo, che dalla Russia aveva raggiunto il Pacifico ad est e, con la seconda guerra mondiale, guadagnava terreno ad ovest.
Sappiamo come sono andate le cose e fa sorridere la considerazione che proprio l’esercito americano ( e non sovietico) spazzò via quella civiltà da cui i nostri padri provenivano. È stata infatti la cultura dei vincitori a fare del limite non più un qualcosa di insuperabile, ma uno stimolo ad andare oltre, incoraggiato dal consumismo e dalla democrazia liberale. Lo stesso fenomeno del ’68 è oggi riletto da qualcuno come espansione più che contestazione del consumismo ed un ulteriore spostamento dell’”insuperabile” limite.
Non do giudizi, solo qualche volta penso e guardo questa esponenziale crescita di un indiscusso benessere fino all’attuale saturazione. Rispetto ai nostri padri, quando sono nato, ho trovato,grazie al loro lavoro, strade asfaltate, diritto allo studio, cibo e abiti a sufficienza, luce ed acqua in casa e poi, via via il frigorifero, la lavatrice, le automobili…ma adesso che ho l’età che avevano loro 50 anni fa, si riporta il ciottolato nelle strade, si importano muratori extra-comunitari, si recuperano rituali smessi, si fanno corsi di restauro, intreccio, rilegatura, danze popolari, mantenimento di lingua e tradizioni: in una parola si piange un morto che abbiamo tutti contribuito ad ammazzare.
Ancora: non do giudizi, ma qualche volta penso agli uomini di domani, che avranno 50 anni fra cinquant’anni. Vorrei leggere questo nostro tempo travagliato con i loro occhi e, anche se le tinte paiono fosche, riuscire a vedere nella morte del bruco la nascita della farfalla, come sanno i saggi.
E vorrei per loro un mondo più lento, riconciliato con se stesso, più attento alla sua natura interiore, oltre che rispettoso di quella esteriore.
Ho quasi 50, da un po’ ho smesso di sentirmi al volante della vita e mi ritengo piuttosto uno strumento di un progetto la cui comprensione non mi è data. Anche la parola crisi, mi dicono, deriva dal greco e significa trasformazione.

(Lettera al direttore inviata al Messaggero Veneto il 04 giugno 2009)

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