lunedì 11 giugno 2012

Il modello occidentale e la globalizzazione - Pier Giorgio Micelli

Diceva bene (e benediceva) padre Turoldo da Coderno, anni addietro, che se la Chiesa perde la sua qualità profetica, è un cadavere. Un’ipotesi che riguarda anche i piani alti della politica e dell’economia, dove vengono prese decisioni con una ricaduta sulla società civile, che nell’età di internet va intesa in senso planetario. La profezia non è altro che la capacità di vedere nel futuro gli effetti dell’azione del presente e l’assenza di questa visione delle cose nel progetto delle autorità tanto religiose che politiche ed economiche è oggi evidente: il senso di spaesamento che ne consegue obbliga di fatto i singoli individui a far fronte a questa assenza di riferimenti ideologici e spirituali, chiamando ognuno a riscrivere i significati di parole grosse quali identità, appartenenza, cultura, memoria, politica, religione... Schiere di sociologi, antropologi, filosofi e quant’altri stanno lavorando in questa direzione, per decodificare il nuovo orizzonte che si va delineando: uno scenario già visto nella storia ogni volta che un’innovazione tecnologica ha esteso le frontiere della possibilità umane: l’invenzione della stampa, della macchina a vapore, del motore a scoppio, delle onde radio, telefono, telegrafo, televisione, cellulare, ecc… La nuova frontiera è oggi quell’insieme di processi che chiamiamo globalizzazione, vale a dire l’esportazione a livello mondiale del modello socio-economico occidentale. L’evidente contraddizione di questo progetto consiste nel fatto che l’occidente ha smarrito la capacità profetica di conoscere la sua direzione, con le conseguenze prospettate da Turoldo, e non si capisce con quale diritto si proponga come modello mondiale. Stanislao Nievo fece dire al personaggio di un suo romanzo (Aurora, 1979) che la mente razionale ed analitica, oggi dominante nel pensiero occidentale , è miope, vede fin troppo bene da vicino, ma poco e male ciò che è lontano. Una globalizzazione con queste caratteristiche non può che essere destinata alla perpetuazione del fallimento: lo possiamo vedere in paesi emergenti quali Cina e India, che stanno svendendo una tradizione millenaria per motteggiare uno sviluppo di tipo occidentale, che nessun trattato di Kioto pare correggere. Proprio da quelle culture proviene tuttavia il concetto di mente intuitiva che il personaggio del Nievo definisce invece presbite, capace quindi di una visione del lontano, ma carente nel vicino. Non c’è bisogno di essere profeti per concludere che se il metodo razionalista occidentale e quello intuitivo orientale si daranno una mano a vicenda, la visione sarà completa e la globalizzazione effettiva, con un’economia ricollocata nella sua corretta funzione di strumento, anziché fine, la tecnologia in quella sua propria di arnese, e non sostituto, dell’uomo, la libertà modellata dalla responsabilità, non dalla sopraffazione dell’altro.

I confini tra le civiltà sono solo mentali, artifizi di una politica incapace di vedere lontano. Viceversa i bisogni reali, le aspirazioni, i sogni sono gli stessi per tutti gli umani. L’unico confine è quello dell’identità, nel senso più dinamico ed elastico del termine, il lungo cammino che ha condotto ogni popolo ad essere ciò che è e a diventare ciò che diviene, in una relazione interattiva nei confronti del diverso da sé. Si tratta di un’idea nuova di confine ed insieme vecchissima perché propria di civiltà scomparse quali quelle di Celti ed Etruschi, per i quali era questo un luogo sacro di incontro tra i popoli per stingere patti e rinnovare alleanze.

Una canzone di una giovane e poco conosciuta autrice friulana (Laura Furci, codroipese) dice che la cosa più nuova è la più vecchia. Qualcosa mi suggerisce che abbia ragione e che la profezia altro non sia che guardare attraverso l’apparenza delle cose, per cogliere ciò che, più che vecchio, esiste da sempre ed è quindi sempre nuovo.

6 luglio2011

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